Il 2 aprile 2025 resterà inciso nei libri di storia come l'inizio non dichiarato della Terza Guerra Mondiale.
( nella foto di apertura, Donald Trump, Presidente USA, che illustra i dazi )
Nessun carro armato, nessuna trincea, nessun soldato sul campo.
A scatenare il conflitto è stata una penna, quella del presidente americano Donald Trump, che ha firmato la più imponente imposizione di dazi doganali mai registrata nella storia contemporanea.
Una vera offensiva commerciale, travestita da protezionismo patriottico, ma con conseguenze che già oggi stanno ridisegnando gli equilibri geopolitici e finanziari del pianeta.
Il gesto è stato battezzato come il "Giorno della Liberazione Economica", una strategia con cui Washington ha imposto una tassa d’ingresso del 10% su tutte le importazioni, colpendo però in modo mirato alcune nazioni con percentuali molto più elevate.
È la Cina il bersaglio principale, con dazi che raggiungono il 34%, andando a colpire al cuore il gigante asiatico.
L’Unione Europea è stata punita con un'imposizione del 20%, salendo al 25% per il comparto automotive, settore strategico per la Germania e per il vecchio continente.
Ancora più severe le tariffe contro il Vietnam, arrivate al 46%, mentre la Thailandia è stata colpita con un dazio del 36%, entrambe considerate da Washington come avamposti produttivi troppo legati alla sfera d’influenza cinese.
A sorpresa, anche la Svizzera è finita nel mirino, con dazi del 31%, una mossa che ha lasciato perplessi economisti e diplomatici di Berna, paese notoriamente neutrale.
Trump non ha lasciato spazio a dubbi: "Tutti devono pagare il giusto prezzo per accedere al mercato americano".
La Cina ha risposto in perfetta simmetria, applicando dazi del 34% sui prodotti statunitensi e accendendo la miccia di una spirale di ritorsioni che rischia di travolgere l’intera economia globale.
Gli Stati Uniti hanno dato il via libera a un conflitto economico che coinvolge anche gli alleati più stretti, e la domanda che serpeggia ora tra i corridoi di Bruxelles è quanto l’Europa sia disposta a rispondere apertamente, sapendo che una larga parte dei capitali europei è nelle mani di giganti come BlackRock e JP Morgan.
Nel solo arco di una settimana, il mercato azionario americano ha bruciato oltre 4.000 miliardi di dollari di capitalizzazione.
Una cifra che da sola basterebbe a far tremare qualsiasi governo.
Tuttavia, la domanda più inquietante è un’altra: mentre milioni di investitori vedono dissolversi i loro risparmi, quanti grandi operatori finanziari stanno in realtà guadagnando da questa tempesta? I fondi speculativi, le grandi banche d’investimento, i colossi come BlackRock e JP Morgan avevano forse previsto questa caduta? O peggio, hanno contribuito a indirizzarla, consigliando dietro le quinte mosse capaci di far oscillare i mercati a loro vantaggio?
È lecito domandarsi quanti "short" siano stati aperti con perfetto tempismo.
Perché se da un lato si assiste alla distruzione di valore, dall'altro chi ha scommesso contro i mercati ha già incassato profitti astronomici.
Non si tratta solo di una guerra tra Stati, ma di una partita giocata nelle segrete stanze della finanza globale, dove pochi eletti muovono le leve di intere economie.
La Russia, intanto, osserva in silenzio. Forte del proprio isolamento strategico maturato durante gli anni del conflitto in Ucraina e delle sanzioni occidentali, il Cremlino ha imparato a vivere al di fuori dei grandi flussi commerciali globali.
Ora, mentre Stati Uniti e Cina si consumano in un estenuante confronto economico, Mosca si prepara a rientrare in campo da protagonista, tessendo alleanze sotterranee e rafforzando le sue esportazioni di energia verso nuovi mercati affamati.
Alla fine, questa guerra dei dazi sembra avere un unico denominatore: tutti stanno perdendo qualcosa, ma non tutti stanno perdendo allo stesso modo.
Mentre la tensione cresce, l’impressione è che a vincere non saranno le nazioni, ma chi saprà cavalcare le onde del caos globale. E, come spesso accade nella storia, non saranno i più deboli.
Marco Fancelli