È un fatto che nel nostro Paese si tacciano delle verità scomode.
È un fatto che il potere cercherà sempre di non farle emergere.
Ed è un fatto che i migliori servitori dello Stato che cercavano tali verità siano stati delegittimati, isolati e distrutti - sia fisicamente che professionalmente - proprio da quelle Istituzioni che avevano il compito di proteggerli e sostenerli.
Lo schema è sempre lo stesso: l’elemento scomodo, come ad esempio un magistrato “che sta facendo semplicemente il suo dovere senza sconti per nessuno” viene, “proprio come figura” fatto “a pezzi, perché facendolo a pezzi si riesce ad annullarlo, a dividerlo, e a renderlo un personaggio quasi risibile nella battaglia che ha fatto”.
È con questa sintesi spietata e chiara che il giornalista e conduttore del programma ‘Atlantide’, Andrea Purgatori, ha aperto la presentazione del libro 'Fuori dal Sistema' di lunedì dodici dicembre svoltasi a Roma, alla libreria Mondadori.
Tra il pubblico era presente anche il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni.
Purgatori, interloquendo con il consigliere togato al Csm Nino Di Matteo e con l’ex magistrato e oggi leader di 'Unione Popolare' Luigi de Magistris - autore del libro - ha delineato quello che può essere definito come un vero e proprio processo di disgregazione, attuato “dal sistema nei confronti di un servitore dello Stato” con il fine ultimo di dare una “lezione a chiunque altro voglia seguire la sua determinazione - come è stato per il caso di Luigi de Magistris e di Nino Di Matteo - a portare avanti delle inchieste che vanno a toccare dei centri di potere”.
Magistrati come loro sono stati colpiti più volte “dal fuoco nemico ma anche dal fuoco amico. Ma questa è una costante direi che riguarda molti magistrati, molti investigatori ma anche molti giornalisti. Ma non è soltanto il modo o la modalità con cui si colpisce un elemento che esce fuori dalle regole” di “un sistema che tende ad auto conservarsi attraverso la gestione del potere”.
Un sistema che Di Matteo e de Magistris conoscono molto bene.
“I tentativi di bloccare le nostre indagini - ha raccontato il magistrato palermitano parlando delle inchieste sulla Trattativa - sono iniziati quando, attraverso le intercettazioni che avevamo disposto nei confronti di alcuni soggetti coinvolti nelle indagini della trattativa, tra questi l'ex ministro degli interni Mancino, sono state registrate delle interlocuzioni con alti funzionari del Quirinale con lo stesso ex capo dello stato Giorgio Napolitano. Lì il potere si è definitivamente saldato per attaccare queste indagini”.
Ricordiamo che gli attacchi non si limitarono solo alle indagini, ma avevano coinvolto in prima persona anche il magistrato Nino Di Matteo: “Mi hanno messo sotto inchiesta disciplinare dopo che era stata pubblicata la notizia della esistenza di intercettazioni di Mancino con il Presidente Napolitano. Noi avevamo detto che non le avevamo depositate agli atti del processo perché erano penalmente irrilevanti”.
“Quell’inchiesta disciplinare esercitata e aperta dal procuratore generale della Cassazione, era stata sollecitata da una nota del segretario generale del Quirinale” mentre, “dalle intercettazioni e da quello che ci veniva raccontato dai collaboratori di giustizia” avevamo “la bomba sotto il sedere”. “Mentre hai le bombe, mentre sai che stai vivendo delle situazioni che è difficile da vivere, sai che la massima autorità istituzionale comunque ti vuole punire” ha detto il consigliere togato.
E il sistema nel corso del tempo non è cambiato, ha solo mutato forma e colore.
Una delle vicende più inquietanti - come ha ricordato il direttore Giorgio Bongiovanni rivolgendosi all’ex ministro della difesa del governo Conte I Elisabetta Trenta, presente in sala - “è stato il tradimento e l’inganno che” i vertici del Movimento 5 Stelle “Grillo, Conte e Bonafede” hanno “posto in essere contro il dottore Di Matteo. Perché era stato candidato a ministro degli interni o della giustizia e voi gli avete voltato la faccia. Tradendo il popolo italiano, perché milioni di italiani hanno votato voi perché sostenevate il magistrato Di Matteo e li avete traditi. Quindi peggio della mafia. Questo è peggio della mafia!”
“Volevo aggiungere un piccolo tassello: nel sistema purtroppo c’è stato un grave delitto, è stata colpita l’antimafia” ha detto Giorgio Bongiovanni. “Il movimento antimafia è stato infiltrato da quel Sistema. Perché il movimento antimafia che si è riversato per le strade di Palermo e di Napoli” quando si era trattato di difendere commercianti e protestare contro il pizzo “non c’è stato quando si è trattato di difendere dei magistrati condannati a morte come il dottore Di Matteo e come Luigi de Magistris”.
“Il sistema - ha detto - ha convinto anche l’antimafia che” Luigi de Magistris era “un esaltato”. “Salvatore Borsellino è un'eccezione, ma molti famigliari di altri martiri hanno pensato che tu (riferendosi a de Magistris n.d.r) eri un esagerato”. “Hanno pensato che i magistrati del processo Trattativa erano fuori di testa, addirittura depistatori”. “Quindi noi dobbiamo assumerci la responsabilità in tutti i settori”.
La stessa “Anm, non solo Palamara, che doveva rappresentarvi” e “quella stampa di sinistra che esaltava Falcone e in cui addirittura Falcone scriveva degli editoriali, non vi ha difeso. Quindi nel tassello magistratura, politica e giornalismo, una grossissima responsabilità ce l’ha l’antimafia”, ha concluso il direttore.
Il disfacimento della giustizia
Il nuovo governo si è insediato da poco, ma il suo pensiero in merito alla giustizia è già fin troppo chiaro.
Prova ne sono gli sproloqui dell’attuale guardasigilli Carlo Nordio. In questi giorni è intervenuto su vari temi, ed in particolare sull’uso delle intercettazioni telefoniche. Secondo il ministro andrebbero drasticamente ridotte per risparmiare.
“Il ministro ha messo in discussione pure il valore di prova delle intercettazioni” ha specificato Di Matteo. Ma “cosa sapremmo noi di tante cose se non ci fosse stato a disposizione dei magistrati e della polizia giudiziaria questo strumento importantissimo di indagine?”. “Come siamo arrivati ad individuare la catena dei responsabili, almeno quelli mafiosi, della strage di Capaci? Come siamo arrivati a dare coraggio anche a imprenditori e commercianti che sanno di poter contare anche su questa attività di indagine della magistratura per individuare i loro estorsori? Come siamo arrivati a sequestrare ingenti patrimoni illeciti di mafiosi e prestanome dei mafiosi?” Tuttavia la crociata contro le intercettazioni continua anche a colpi di menzogne.
“Io ho sentito fino a pochi giorni fa, se non ho letto male, anche l’attuale ministro della giustizia Nordio, quando parlava delle intercettazioni e della loro divulgazione, fare riferimento a chi di queste divulgazioni di intercettazioni illecite o disinvolte ce morto, facendo riferimento chiaramente a Loris D’Ambrosio, all’epoca responsabile giuridico degli uffici del Quirinale.
“Peccato che quelle intercettazioni non ebbero nessun tipo di divulgazione illecita”, e nessun investigatore o magistrato aveva mai “aperto bocca” o “divulgato quelle intercettazioni”.
Luigi De Magistris con Nino De Matteo
Questo è soltanto un tassello di una riflessione più grande. Amara ma necessaria. La magistratura - ha spiegato Di Matteo - “negli ultimi decenni ha subito, non soltanto a più riprese e in più frangenti, degli attacchi esterni al concetto di autonomia e di indipendenza che la caratterizzano” ma “anche degli attacchi interni. Cioè siamo stati noi i primi ad assecondare quell’andazzo di correlatività al potere, di burocratizzazione, di gerarchizzazione, di prevalenza del concetto di appartenenza ad una corrente piuttosto che ad una cordata di magistrati, come criterio decisivo per fare carriera. Siamo stati noi i primi a farci infiltrare dal germe del carrierismo per esempio. Abbiamo perso di vista quella che è la nostra funzione principale che è quella di applicare la legge in maniera uguale per tutti”.
Inoltre, secondo il consigliere togato, in questo periodo “la parte più pericolosa, non solo della politica ma del potere, sta magistralmente approfittando della debolezza della magistratura” per “regolare i conti con la magistratura. Per definitivamente limitarne” l’autonomia e l’indipendenza “e per disegnare un sistema in cui la magistratura possa essere forte ed efficace per la repressione dei reati comuni” e “invece sempre più timorosa e attenta a non disturbare il manovratore per quanto riguarda il controllo di legalità che la magistratura è tenuta a fare anche sui modi in cui viene esercitato il potere”.
“Quando sento parlare addirittura di possibilità di riforma costituzionale, e non mi riferisco soltanto alla separazione delle carriere, ma alla rivisitazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale, mi viene da pensare ad un disegno che mira ad una magistratura sotto controllo politico”, ha detto Di Matteo.
Una considerazione condivisa anche da de Magistris il quale ha sottolineato che, in questi anni, si sta realizzando ciò che era stato delineato da Licio Gelli con il suo programma di Rinascita Democratica: “Struttura verticistica dello Stato, un Parlamento in cui fosse flebile la dialettica tra maggioranza e opposizione, neutralizzare stampa e magistratura, lo stato di eccezione che diventa permanente e la criminalizzazione del dissenso. Lascio a voi ovviamente la suggestione di pensare se siamo in una fase di questo tipo o meno”.
In questo contesto si inserisce anche la “legge bavaglio” ha detto Di Matteo. “Anche questa cosa che vieta ai magistrati di parlare delle loro inchieste e dei loro processi fino a quando le sentenze non siano passate in giudicato, quindi spesso dopo decenni, si inserisce un po’ nello stesso alveo in cui il disegno piduista prevedeva, se non ricordo male in un punto, che i nomi dei magistrati che conducevano le indagini e che celebravano i processi non dovevano nemmeno essere divulgati dalla stampa”.
Secondo Andrea Purgatori, stiamo attraversando un momento storico che può arrivare “a modificare la struttura democratica del nostro Paese”.
La sentenza d’Appello del processo Trattativa
“Ci sono alcuni passaggi di quella motivazione” ha detto Luigi de Magistris per cui, come magistrato, “mi sono sentito umiliato”. “Sta scritto, in sintesi, che se l’obbiettivo di chi ha trattato con la mafia era quello di far abbandonare alla mafia la strategia stragista, e quindi di tornare alla convivenza con le mafie, perché questo è, non è reato. Anzi è stato fatto per fini solidaristici, cioè noi gli dobbiamo dare anche la medaglia”.
“Ma c’è scritto anche che non perquisire la casa di Totò Riina per diciotto giorni è stato un gesto di buona volontà nei confronti della mafia” ha aggiunto Purgatori. Per fare chiarezza è stata ‘scartata in partenza l'ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l'ipotesi che essi abbiano agito per preservare l'incolumità di questo o quell'esponente politico’.
Per questo motivo nella sentenza si ribadisce ‘che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra, che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato'.
L'ex ministra della difesa del Governo Conte I°, Elisabetta Trenta
Ma se vi era un interesse di Stato è chiaro che i carabinieri non avrebbero potuto agire di loro semplice iniziativa o che comunque avrebbero ricevuto delle indicazioni o delle direttive da seguire. Da chi, non è dato sapere e la sentenza non lo spiega.
Si scrive direttamente che l'intento del Ros sarebbe stato quello di tessere ‘un'ibrida alleanza’ con la cosiddetta 'componente moderata e sempre più insofferente della linea dura imposta da Riina'.
Ovvero quella silenziosa e più dedita agli affari capeggiata da Bernardo Provenzano.
“Io vorrei capire cosa significa ala moderata se in quel momento chi ne era a capo, Provenzano, come dicono sentenze definitive a sua volta ordinava omicidi” ha detto Di Matteo ricordando che, sempre come scritto nella sentenza, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ‘ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo’.
“Non posso commentare la sentenza - ha detto - ma una cosa la voglio commentare e non della sentenza. Ma che paese è quello in cui non si scatena su queste cose un dibattito culturale? Che paese stiamo diventando? È vero la sentenza è stata depositata il 6 agosto, è stata depositata in piena estate, è stata depositata quando l'attenzione degli italiani era tutta sulla campagna elettorale, però noi siamo diventati un paese in cui non si discute se è una cosa commendevole o meno che una parte dello Stato si rivolga a una parte della mafia per ottenere, diciamo, i suoi scopi”.
Stiamo diventando un Paese in cui, ha precisato de Magistris, “i normali stanno diventando sovversivi e disobbedienti mentre i deviati stanno diventando normali”.
Durante la presentazione del libro l’ex pm di Catanzaro ha anche ricordato alcuni particolari dell’inchiesta Why Not. Nello specifico di quando, come si può leggere anche nel libro ‘Fuori dal Sistema’, ‘la procura generale della Cassazione si associò supinamente al ministero della Giustizia. Mi ritrovai così a dover lasciare subito la Calabria, non solo Catanzaro, e non potevo più fare il Pm’.
‘Nella storia della Repubblica - si legge - non era mai successo che un ministro della Giustizia indagato chiedesse il trasferimento del pubblico ministero che indaga su di lui e sul presidente del Consiglio’. “Ecco la saldatura”, ha detto de Magistris: “Lo Stato arrivato a certi livelli non intende essere processato. E ti spieghi perché le sollecitazioni delle azioni contro di noi sono avvenute ai vertici dello Stato. E qual è stata la strategia dei vertici dello Stato? ‘A De Magistri e gli altri non fateceli fare fuori a noi. Altrimenti sarebbe interpretata come una interferenza della politica nella magistratura. Li dovete fare fuori voi’”.
Il Pubblico a Roma, Galleria Sordi, Libreria Mondadori
“La lotta contro la mafia è una lotta di libertà”
“Quando parliamo di lotta al sistema mafioso - ha continuato il consigliere togato - dobbiamo tutti essere consapevoli che la magistratura e le forze dell’ordine non possono fare tutto ma che la guerra si potrà vincere se si verificheranno determinate condizioni. La prima è che la politica metta effettivamente al primo posto della sua agenda il contrasto al sistema mafioso. Da questo punto di vista io non ho mai creduto a quella che è la guerra dei trent’anni tra politica e magistratura.
La magistratura, ma direi tutti noi cittadini, dobbiamo sempre sognare una politica forte. Non dobbiamo cedere alla tentazione della rassegnazione come se l’impegno politico fosse assolutamente inutile o addirittura negativo. Io sono rimasto impressionato, quando ebbi un’occasione professionale di rappresentare la pubblica accusa in uno dei processi che hanno riguardato l’omicidio di Pio La Torre, di studiare bene i suoi interventi, i suoi comizi, la sua relazione di minoranza della commissione parlamentare antimafia del 1976 e ho capito quanto la politica può stare in prima fila nella lotta alla mafia.
Può anticipare l’azione dei magistrati e delle forze dell’ordine. Pio La Torre scriveva nel ’76, in quella relazione di minoranza, di collusioni tra quei corleonesi di Luciano Liggio e Totò Riina e di politici notabili palermitani e siciliani, prima che quelle informazioni, quei nomi e quelle denunce fossero consacrate, non dico in una sentenza, ma nemmeno in un rapporto dei carabinieri o della polizia.
Quello era l’esempio di una politica che assumendosi le proprie responsabilità sta in prima linea. È questa la politica che dobbiamo sognare. La politica che sta in prima linea. Io oggi assisto ogni volta che c’è qualche indagine che sfiora i livelli alti della politica ma soprattutto i rapporti tra la mafia e la politica a due tipi di reazioni. Ormai quasi standardizzate. La prima - ha continuato il magistrato - è quella della compagine politica alla quale appartiene l’indagato o l’imputato di turno che parla di macchinazione o di disegno politico della magistratura, parla di un complotto della magistratura. Ma vi dico che da un certo punto di vista rimango più deluso dalla reazione degli altri che ormai è sempre la stessa: rispetto all’azione della magistratura, aspettiamo le sentenze definitive della magistratura.
Questo è un modo per non affrontare il problema perché ci sono certi comportamenti che sono accertati che dovrebbero comportare meccanismi di responsabilità politica prima ancora che penale” e a “prescindere della responsabilità penale”. “Io non credo che sia degno di una politica effettivamente alta dire sempre ‘aspettiamo le sentenze definitive della magistratura’. È un alibi. Se io ho visto un politico incontrarsi con un mafioso e so che lui sapeva della mafiosità del suo interlocutore, ma che bisogno ho di aspettare le sentenze definitive della magistratura? È un alibi”.
Nino De Matteo Luigi De Magistris e Andrea Purgatori
“Non è vero - ha detto Di Matteo - secondo me che la magistratura ha invaso sempre il campo della politica, casomai è capitato che una parte significativa della politica ha fatto un passo indietro rispetto ai suoi altissimi compiti istituzionali e abbia delegato la lotta al sistema mafioso esclusivamente sulle spalle della magistratura e delle forze dell'ordine; noi così la guerra non la vinciamo la guerra la si potrà vincere solo a tre condizioni: il funzionamento dell'apparato repressivo della magistratura e delle forze dell'ordine con le leggi adeguate, l'assunzione di responsabilità politica dei partiti politici del parlamento, del governo che metta veramente in prima linea la lotta alla mafia e poi una rivoluzione culturale che parta dai giovani, dagli studenti, dagli operai, che faccia capire che la lotta contro la mafia è una lotta di libertà e di dignità del nostro paese”.
E l’impegno non può che riguardare le nuove generazioni.
“Io credo che la parte non buona del potere tema queste cose qua. Tema la possibilità che delle persone che vengono ritenute credibili, possano rivolgersi ai giovani, ai cittadini, anche alle persone più umili, agli operai, per fare capire quanto sia vitale per la nostra democrazia contrastare il sistema mafioso. Non soltanto le mafie da un punto di vista miliare, ma il sistema mafioso che poi è qualcosa di diverso, quello che si fonda su concetti che purtroppo sono diffusi in tutta Italia: il privilegio, il favore piuttosto che il diritto, l’appartenenza piuttosto che il merito, la scorciatoia piuttosto che il rispetto delle procedure e delle leggi”.
In conclusione sono davvero tanti quei nemici che spudoratamente, o in maniera del tutto sibillina, remano contro la giustizia. Uomini e donne predisposti a creare una voragine che inghiotte la democrazia e i diritti.
Si tratta di magistrati, politici, alti esponenti delle istituzioni con il beneplacito di buona parte dell’informazione. Sul fronte opposto, invece, resta chi non intende arrendersi a questo scempio.
Uno ‘zoccolo duro’ che non ha tradito i valori della Costituzione e la memoria dei tanti martiri caduti.
Fonte: "Antimafiaduemila.it"
Articolo scritto dal giornalista Luca Grossi
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