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Oggi Cristina Mazzotti avrebbe avuto 67 anni se quel maledetto giorno, il 30 giugno 1975, non fosse stata sequestrata e poi barbaramente uccisa il 31 luglio.

Esattamente il giorno dopo il 1° agosto, i genitori della giovane Cristina versarono alla banda il riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire (oggi circa 5 milioni di euro), purtroppo invano.

Da pochi giorni Cristina Mazzotti aveva compiuto i suoi 18 anni e si apprestava a vivere la sua vita ma un destino orribile gli ha fatto incontrare coloro i quali ne hanno determinato sofferenze atroci e la morte.

La storia di Cristina Mazzotti è rimasta impressa nell'immaginario collettivo degli anni '70 per la sua crudeltà e la sua efferatezza.  

Cristina era la figlia di Helios Mazzotti, imprenditore del settore cerealicolo. Un uomo di successo che divenne l'obiettivo di quella stagione dei sequestri che attraversò gli anni '70 e i primi anni '80 e che seminò morte e disperazione.

Una stagione terribile, quella dei sequestri di persona, che vide protagonista una criminalità feroce ed arcaica, la 'ndrangheta, che nel tempo è divenuta l'organizzazione criminale più potente al mondo.

Citando i dati del Ministero dell’interno, riportati da Carabellese e Zelano nel libro ‘Il fenomeno dei sequestri di persona in Italia’, dal primo gennaio 1969 al 18 febbraio 1998 in Italia si sono consumati 672 sequestri, per un totale di 694 persone coinvolte.

Di questi sequestri, 471 sono avvenuti nel decennio tra il 1975 e il 1985, per un giro d'affari di circa 800 miliardi di lire dei quali in gran parte entrati nella cassa della 'ndrangheta e poi reinvestiti in traffico di cocaina.

Quel maledetto giorno, il 30 giugno del 1975 Cristina era uscita col fidanzato, Carlo Galli, e con Emanuela Luisari, la sua migliore amica, per festeggiare la promozione in terza liceo, l'ultimo anno del Liceo classico.


Dopo aver bevuto qualcosa con altri amici al Bar Bosisio di Erba, i tre si rimisero in macchina, una Mini Minor, per fare ritorno alla casa di famiglia dei Mazzotti a Eupilio, piccolo comune del comasco.

L'auto,una Mini Minor, dalla quale il 30 giugno 1975 venne sequestrata la giovane diciottenne Cristina Mazzotti

Sulla strada per Longone al Segrino l'auto venne fermata da una Fiat 125, da cui scesero due uomini a volto coperto, che senza dire una parola, fecero salire i tre ragazzi sul sedile posteriore dell'auto, con la testa tra le ginocchia.

All'altezza di Appiano Gentile, a circa 40 km da Eupilio, i ragazzi vennero fatti scendere e un altro uomo chiese chi fosse Cristina Mazzotti.

La ragazza, per evitare ritorsioni nei confronti degli altri due, si palesa immediatamente e viene incappucciata e caricata su un'altra macchina.

La giovane diciottenne viene condotta presso una cascina a Castelletto Ticino, in provincia di Novara, fittata qualche mese prima da Giuliano Angelini, 39 anni con precedenti penali per traffico d'armi e dalla sua compagna, Loredana Patroncini.

Nei pressi della cascina venne preparata una buca nella quale venne tenuto l'ostaggio.

Una buca profonda un metro e 45 centimetri, larga un metro e 55 e lunga due metri e 65.

La povera Cristina non poteva stare neanche in piedi e venne tenuta al buio e al freddo, ma, soprattutto per la comunicazione con l'esterno venne utilizzato un tubo di plastica dalla sezione di appena soli 5 cm., praticamente una tomba di cemento.

La buca nella quale venne segregata la giovane Cristina Mazzotti nei 32 giorni del sequestro

 

Quale disumanità poteva concepire un simile e terribile supplizio per una povera ed innocente ragazza di soli 18 anni.


Nelle valutazioni processuali in merito si scrisse: "L’altezza non consentiva alla prigioniera di mantenere la posizione eretta. Si pensi anche che le pareti di cemento, essendo state allestite di fresco, il tenore di umidità doveva essere quanto mai elevato e che la ragazza era tenuta al freddo e al buio.

Inoltre l’aerazione della cella non poteva essere che deficitaria se la comunicazione con l’esterno avveniva mediante un tubo di plastica della sezione di 5 cm. "

La prima telefonata arrivò il 4 luglio con una richiesta altissima, ben 5 miliardi. Una cifra enorme per il 1975.

Il telefonista era un giovane calabrese coinvolto anche in altri sequestri.

Dopo una serrata trattativa il padre di Cristina, ipotecando finanche la casa nella quale abitava con la sua famiglia, riuscì a racimolare 1 miliardo e 50 milioni di lire.

La sera del 1° agosto il telefonista diede le disposizioni per come pagare il riscatto che venne consegnato in un bosco vicino a Castelseprio.

Ma fu tutto inutile. Il giorno prima del pagamento del riscatto, il 31 luglio, Cristina morì a soli 18 anni per il trattamento disumano e per le eccessive dosi di tranquillanti ed eccitanti alla quale fu sottoposta nei 32 giorni del sequestro.

In un primo tempo le indagini brancolarono nel buio per come accadeva puntualmente per tutti i numerosi sequestri di persona di quel terribile periodo fin quando un uomo legato ad Angelini, Libero Ballinari, specializzato nell'esportare valuta oltreconfine, tentò di ripulire la propria parte derivante dal sequestro di Cristina in una Banca svizzera.

La Banca segnalò il versamento alla polizia federale svizzera che avvisò la polizia italiana.

Libero Ballinari venne arrestato e iniziò a collaborare con gli inquirenti facendo i nomi dei 13 componenti della banda e, soprattutto, facendo ritrovare il 1° settembre 1975 il corpo straziato della povera Cristina buttato in una discarica a Vallarino di Galliate, in provincia di Novara. Altra terrificante e mostruosa crudeltà. 

La discarica di Gallarino di Valliate ( NO) dove il 1° settembre 1975 venne ritrovato il corpo martoriato di Cristina Mazzotti

Il ritrovamento provocò orrore e sdegno nell'intero Paese e tutti i quotidiani pubblicarono la notizia in prima pagina.

Al funerale della giovane e sfortunata ragazza parteciparono in oltre 30.000.

Articolo sul sequestro di Cristina Mazzotti su "La Stampa" di Torino - Cronache Novaresi

 
Il 5 aprile 1976, dopo sette mesi di immenso dolore e sofferenza il padre di Cristina Mazzotti morì d'infarto lasciando prima di morire la volontà di costituire una fondazione a nome della figlia.
 
Fondazione che ancora oggi è attiva ed impegnata sulle tematiche del disagio e della sofferenza giovanile.


Dalle confessioni di Ballinari scaturì il processo a carico di Angelini e dei suoi complici.
 
Dal processo si accertò che il compenso per la banda fu di 104 milioni di lire che vennero recuperati.
 
Il resto del riscatto, ben 946 milioni, non si ritrovò mai più. Finì nelle mani dei calabresi che ben sapevano come utilizzarli e ripulirli senza lasciare tracce.

Nel processo Angelini affermò che la morte di Cristina avvenne dopo una massiccia somministrazione di Valium ma gli inquirenti ipotizzarono che fosse stata bastonata e lasciata morire nella discarica quando era ancora in coma.

La banda, composta da 13 persone, venne condannata ma sul ruolo della 'ndrangheta nel processo non si fece alcuna luce.

Si dovrà attendere il 1994, dopo circa 20 anni, quando Antonio Zagari, figlio del boss Giacomo Zagari  che giunse in Lombardia nel 1954, con le sue dichiarazioni da collaboratore di giustizia fece scattare l'operazione "Isola Felice" nella quale si accertò il  coinvolgimento della 'ndrangheta nel sequestro di Cristina Mazzotti.
 
Antonio Zagari di San Ferdinando (RC) nato il 1954 si pentì nel 1990 autoaccusandosi di numerosi omicidi e nel 1992 venne pubblicato un libro con la sua storia "Ammazzare Stanca" edito dalla Casa Editrice "Periferia" di Cosenza. Libro che registrò un grande successo editoriale. Antonio Zagarì morì nel 2004 a 50 anni in un incidente stradale.

Lo stesso Antonio Zagari affermò che il padre, Giacomo Zagari e Giuseppe Morabito, (solo omonimo di Giuseppe Morabito, detto "Tiradrittu"), erano gli ideatori del sequestro.
 
Ma oramai tutto era finito nel tritacarne della prescrizione.

Dal 1994 si dovrà attendere il 2007 per un nuovo colpo di scena.
 
E' l'anno nel quale  l’impronta di un palmo e due impronte digitali raccolte dalla Scientifica nel 1975 vennero attribuite a Demetrio Latella, affiliato alla 'ndrangheta.
 
Il giudice per le indagini preliminari, tuttavia, respinse l'arresto chiesto dalla procura di Torino per mancanza di esigenze cautelari, benché Latella ammise di essere stato uno dei sequestratori e chiamò in causa altre due persone. 
 
Il fascicolo, passato a Milano per competenza territoriale, fu archiviato nel 2012: prescritti, per varie ragioni, il sequestro di persona e l'omicidio volontario aggravato.
 
Nel frattempo, però, una sentenza delle sezioni unite della Cassazione nel 2015 aveva indicato imprescrittibile il reato di omicidio volontario.
 
Venne quindi ripresentato un nuovo esposto dal nuovo avvocato della famiglia Mazzotti, Fabio Repici.

Si giunge, quindi, al 9 novembre 2022 quando vennero chiuse le indagini portate avanti dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Milano Stefano Civardi, coordinate dai procuratori aggiunti Alessandra Dolci e Alberto Nobili, oggi in pensione.
 
Secondo l'accusa, Morabito e Zagari furono invece ideatori del sequestro a scopo di estorsione.
 
Accuse che dovranno, ovviamente, essere dimostrate nell'ambito processuale sino all'eventuale terzo grado.

E nei giorni scorsi la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro imputati, tra cui  Giuseppe Morabito, 80 anni e residente nel Varesotto. 
 
Oltre a Morabito, ritenuto uno dei presunti “ideatori” del sequestro, sono imputati Demetrio Latella, 70 anni, ( ne aveva 21 al momento del sequestro) Giuseppe Calabrò, 74 anni ( ne aveva 25 al momento del sequestro ) e Antonio Talia, 73 anni, ( ne aveva 24 al momento del sequestro ) pure loro presunti vicini alla ‘ndrangheta.
 
I quattro in concorso con 13 persone, già condannate in passato, per come già scritto, secondo la Procura, "presero parte attiva e portarono a compimento la fase esecutiva del sequestro".

Dall’avviso di chiusura delle indagini firmato dal pm Stefano Civardi, sostituto della Procura di Milano, si viene a sapere che il sequestro di Cristina Mazzotti oltre che da Giuseppe Morabito era stato ideato da altri due boss della ’ndrangheta radicata nel Varesotto, Giacomo Zagari (nel frattempo deceduto, coinvolto in altri rapimenti) e Francesco Aquilano (pure lui deceduto).
 
Il provvedimento – che prelude a una richiesta di processo – oltre che a Giuseppe Morabito è stato notificato a Demetrio Latella ( che ha sempre ammesso la sua colpevolezza), Giuseppe Calabrò e Antonio Talia ( chiamati in causa dallo stesso Latella).
 
Gli ultimi tre, unitamente ad altri complici mai identificati, sono indicati come gli autori materiali del rapimento, personaggi della vecchia ‘mala’ milanese, legati alla ’ndrangheta. Cinquanta milioni di lire il loro compenso. Il tutto è da dimostrare nelle fasi processuali e fino ad allora vale la presunzione d'innocenza.

Nei precedenti procedimenti, che finirono in prescrizioni e con nulla di fatto, non c’era traccia di Giuseppe Morabito.
 
E la prima udienza del processo si è tenuta lo scorso 25 settembre 2024 presso la corte d'assise di Como, competente per territorio, visto che la ragazza fu portata via dalla sua casa a Eupilio, nella provincia lariana. 
 
Da allora si sono tenute altre udienze. 
 
Nell'ultima udienza è stata ascoltata quale testimone l'ispettore della polizia di Stato Liliana Ciman, fino alla fine dello scorso anno in servizio alla squadra mobile della questura di Milano. 
 
Nel 2022 l'Ispettore Ciman ebbe l'incarico di effettuare nuove indagini.
 
“Sono ripartita dai documenti del 1975 – ha ricordato in aula – Le sentenze del passato ci dicono che non sono stati individuati tutti coloro che hanno partecipato alla fase attiva del sequestro.
 
Si trattava di capire se ci fossero elementi non valutati o non emersi. E’ stato importante analizzare e capire il momento storico.
 
Bisogna tenere conto che parliamo di un’altra epoca, anche dal punto di vista degli strumenti di cui disponevano gli investigatori. Nel 1975 non si parlava neppure di Dna e di conservazione dei reperti per accertamenti di questo tipo. Quando parliamo di intercettazioni telefoniche poi, dobbiamo pensare che parliamo di apparecchi fissi e di chiamate che i rapitori facevano dalle cabine telefoniche. La provenienza poteva essere individuata in termini ampi, di area geografica e non certo con precisione”.
 
Il processo continua con altre udienze.
 
Della banda che venne condannata nel 1977 in Corte d'Assise a Novara e che erano in 13 ben otto sono oramai deceduti e fra questi anche Libero Ballinari. 
 
Una vicenda tragica, terribile, con la morte di una giovanissima studentessa, la prima donna rapita dalla 'ndrangheta e con la morte per infarto del padre dopo pochi mesi straziato da un dolore inimmaginabile ed infinito.
 
 La giovane figlia ed il papà si saranno reincontrati e saranno insieme per sempre nel Regno dei Giusti.
 
Intanto sulla Terra, dove la giustizia è spesso una parola effimera, quattro anziani boss della 'ndrangheta ( ai tempi del sequestro giovanissimi ) sono sotto processo per una terribile storia dalla quale è trascorso oramai quasi mezzo secolo.
 
Considerando che trattasi di un nuovo processo si potrà passare, in caso di condanna, all'appello e alla Cassazione e passeranno ancora altri anni.
 
Alla fine essendo molto anziani probabilmente non pagheranno nulla.
 
Almeno, forse, si potrà ristabilire la verità.
 
Alla povera Cristina, morta a soli 18 anni, mai nessuno potrà restituirgli una vita non vissuta.
 
Redazione
 
 
 
 
 
 
 
 
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